giovedì 18 febbraio 2010

Raperonzolo

C'erano una volta un uomo e una donna,

che già da molto tempo desideravano invano un figlio; finalmente la donna poté sperare che il buon Dio esaudisse il suo desiderio.
Sul di dietro della casa c'era una finestrina, da cui si poteva guardare in un bellissimo giardino, pieno di splendidi fiori ed erbaggi; ma era cinto da un alto muro e nessuno osava entrarvi, perché apparteneva ad una maga potentissima e temuta da tutti.
Un giorno la donna stava alla finestra e guardava il giardino; e vide un'aiuola dov'erano coltivati i più bei raperonzoli; e apparivano così freschi e verdi, che le fecero gola e le venne una gran voglia di mangiarne. La voglia cresceva ogni giorno; ma ella sapeva di non poterla soddisfare e dimagrì paurosamente e divenne pallida e smunta.
Allora il marito si spaventò e chiese:
"Che hai, cara moglie?"
"Ah" ella rispose "se non riesco a mangiare di quei raperonzoli che son nel giardino dietro casa nostra, morirò".
Il marito, che l'amava, pensò: " Prima di lasciar morire tua moglie, valle a prendere quei raperonzoli, costi quel che costi ".
Perciò al crepuscolo scavalcò il muro, entrò nel giardino della maga, colse in tutta fretta una manciata di raperonzoli e li portò a sua moglie. La donna si fece subito un'insalata e la mangiò avidamente. Ma le era piaciuta tanto e tanto, che il giorno dopo la sua voglia era triplicata.
Perché si quietasse, l'uomo dovette andare un'altra volta nel giardino. Perciò al crepuscolo scavalcò di nuovo il muro, ma quando mise piede a terra si spaventò terribilmente, perché vide la maga davanti a sé.
"Come puoi osare" ella disse facendo gli occhiacci "di scendere nel mio giardino e di rubarmi i raperonzoli come un ladro? Me la pagherai! "
"Ah" egli rispose "siate pietosa! A questo fui spinto da estrema necessità: mia moglie ha visto i vostri raperonzoli dalla finestra e ne ha tanta voglia che morirebbe se non potesse mangiarne".
La collera della maga svanì ed ella disse:
"Se le cose stanno come dici, ti permetterò di portar via tutti i raperonzoli che vuoi, ma ad una condizione; devi darmi il bambino che tua moglie metterà al mondo. Sarà trattato bene e io sarò a lui come una madre".
Impaurito, l'uomo accettò e quando la moglie partorì, apparve subito la maga, chiamò la bimba Raperonzolo e se la portò via.

Raperonzolo diventò la più bella bambina del mondo. Quando ebbe dodici anni, la maga la rinchiuse in una torre che sorgeva nel bosco e non aveva né scala né porta, ma solo una minuscola finestrina in alto in alto. Quando la maga voleva entrare, si metteva finestra e gridava:
"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli

che per salir mi servirò di quelli."
Raperonzolo aveva capelli lunghi e bellissimi, sottili come oro filato. Quando udiva la voce della maga, si slegava le trecce, le annodava a un cardine della finestra, ed esse ricadevano per una lunghezza di venti braccia, e la maga ci si arrampicava.
Dopo qualche anno, avvenne che il figlio del re, cavalcando per il bosco, passò vicino alla torre.
Udì un canto cosi soave, che si fermò ad ascoltarlo: era Raperonzolo, che nella solitudine passava il tempo facendo dolcemente risonar la sua voce. Il principe voleva salire da lei e cercò una porta, ma non ne trovò. Tornò a casa, ma quel canto tanto lo aveva tanto commosso che ogni giorno andava ad ascoltarlo nel bosco. Una volta, mentre se ne stava dietro un albero, vide avvicinarsi la maga e l'udì gridare:
"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli."
Raperonzolo lasciò pender le trecce e la maga salì da lei. "Se questa è la scala per cui si sale, tenterò anch'io la mia fortuna" pensò il principe.
Il giorno dopo, sull'imbrunire, andò alla torre e gridò:
"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli

che per salir mi servirò di quelli."
Subito dall'alto si snodarono i capelli e il principe salì. Dapprima Raperonzolo ebbe una gran paura quand'egli entrò, perché i suoi occhi non avevan mai visto un uomo; ma il principe cominciò a parlarle con grande dolcezza e le narrò che il suo cuore era stato così turbato dal canto di lei da non lasciargli più pace e aveva dovuto vederla.
Allora Raperonzolo non ebbe più paura e quando egli le chiese se lo voleva per marito ed ella vide che era giovane e bello, pensò: " Mi amerà più della vecchia signora Gothel ", disse di sì e mise la mano in quella di lui; e gli disse:
"Verrei ben volentieri, ma non so come fare a scendere. Quando vieni, portami una matassa di seta: la intreccerò e ne farò una scala; e quando è pronta, scendo, e tu mi prendi sul tuo cavallo".
Combinarono che fino a quel momento egli sarebbe venuto tutte le sere; perché di giorno veniva la vecchia.
La maga non si accorse di nulla, finché una volta Raperonzolo prese a dirle:
"Ditemi, signora Gothel, come mai siete tanto più pesante da tirar su del giovane principe? quello è da me in un momento."
"Ah, bimba sciagurata!" gridò la maga "cosa mi tocca sentire! pensavo di averti separata da tutto il mondo e invece tu mi hai ingannata!"
Furibonda, afferrò i bei capelli di Raperonzolo, li avvolse due o tre volte intorno alla mano sinistra, afferrò con la destra un paio di forbici e, tric trac, eccoli tagliati e le belle trecce giacevano a terra. E fu cosi spietata da portare la povera Raperonzolo in un deserto, ove dovette vivere in gran pianto e miseria.
Il giorno in cui aveva scacciato Raperonzolo dalla torre, assicurò le trecce recise al cardine della finestra e quando arrivò il principe e gridò:
"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli."
Il principe sali, ma, invece della sua diletta, trovò la maga, che lo guardava con due occhiacci velenosi.
"Ah" esclamò beffarda "sei venuto a prendere la tua bella! Ma il bell'uccellino non è più nel nido e non canta più; il gatto l'ha preso e a te caverà gli occhi. Per te Raperonzolo è perduta, non la vedrai mai più."
Il principe andò fuori di sé per il dolore, e disperato saltò giù dalla torre: ebbe salva la vita, ma le spine fra cui cadde gli trafissero gli occhi.
Errò, cieco, per le foreste; non mangiava che radici e bacche e non faceva che piangere e lamentarsi per la perdita della sua diletta sposa.
Cosi per alcuni anni andò vagando miseramente; alla fine capitò nel deserto in cui Raperonzolo viveva fra gli stenti, coi due gemelli che aveva partorito, un maschio e una femmina.
Udì una voce, e gli sembrò ben nota: si lasciò guidare da essa, e quando si avvicinò, riconobbe Raperonzolo che gli saltò al collo e pianse. Ma due di quelle lacrime gli inumidirono gli occhi; essi allora si schiarirono di nuovo, ed egli poté vederci come prima.
La condusse nel suo regno, dove fu riabbracciato con gioia; e vissero ancora a lungo felici e contenti.

fine

Jacob e Wilhelm Grimm


martedì 2 giugno 2009

Il lupo e i sette capretti

Una capra aveva sette caprettini, che amava d'amore materno e proteggeva con cura dal lupo. Un giorno dovette uscire per andare a procurare del cibo; li chiamò tutti e disse:
"Cari piccini, devo uscire a prendere il cibo; guardatevi dal lupo e non lasciatelo entrare. Fate attenzione perché‚ spesso si traveste, ma potete riconoscerlo dalla voce rauca e dalle zampe nere. Se riesce a entrare vi divora tutti quanti in un boccone".
Se n'era andata da poco quando il lupo si presentò alla porta gridando con la sua voce rauca:
"Cari piccini, apritemi, sono la vostra mamma e vi ho portato delle belle cose".
Ma i sette caprettini dissero:
"La nostra mamma ha una vocina dolce, mentre la tua è rauca! Tu sei il lupo, non sei la nostra mamma, e noi non ti apriamo!"
Allora il lupo ricorse a un'astuzia: andò da un bottegaio e si comprò un grosso pezzo di creta, lo mangiò e si addolcì così la voce. Poi tornò alla porta dei sette caprettini e gridò con voce delicata:
"Cari piccini, lasciatemi entrare, sono la vostra mamma e ho portato qualcosa per ciascuno di voi"
Ma aveva appoggiato la sua zampa alla finestra; i sette caprettini la videro e dissero:
"La nostra mamma non ha le zampe nere come te, tu sei il lupo e noi non ti apriamo".
Il lupo corse allora da un fornaio e disse:
"Fornaio, mettimi un po' di pasta sul piede"
quindi andò dal mugnaio e disse:
"Mugnaio, spargimi sulla zampa un po' di farina bianca"
Ma il mugnaio non voleva.
"Se non lo fai- disse il lupo -ti mangio"
Allora il mugnaio per paura lo assecondò. Il lupo andò di nuovo alla porta dei sette caprettini e disse:
"Cari piccini, sono la vostra mamma, fatemi entrare; ciascuno i di voi riceverà qualcosa in regalo"
Ma i sette caprettini vollero prima vedere la zampa e siccome videro che era bianca come la neve, e udirono il lupo parlare con voce tanto dolce, credettero che si trattasse della loro mamma, aprirono la porta e il lupo entrò. Ma come si spaventarono quando videro di chi si trattava! Cercarono allora di nascondersi come meglio poterono: il primo sotto il tavolo, il secondo nel letto, il terzo nella stufa, il quarto in cucina, il quinto nell'armadio, il sesto sotto una grossa ciotola, il settimo nell'orologio a pendolo. Ma il lupo li trovò tutti e se li mangiò, meno il più piccolo nascosto nel pendolo; questo rimase in vita. Poi, quando si fu cavata la voglia, il lupo se ne andò. Poco dopo la madre rientrò a casa. La porta era spalancata, tavola, sedie e panche erano rovesciate, le ciotole in cucina erano in pezzi, coperta e cuscini strappati dal letto: che misero spettacolo! Il lupo era stato là e aveva mangiato i suoi cari piccini.
"Ah, i miei sette caprettini sono morti!"
gridò la capra tutta afflitta. Ma in quel mentre il più piccolo balzò fuori dal pendolo e disse:
"Cara mamma, uno vive ancora!"
e le raccontò come fosse avvenuta la disgrazia. Intanto il lupo, dopo essersela spassata, satollo e stanco, si era sdraiato al sole su di un prato verde ed era caduto in un sonno profondo. Ma la vecchia capra era saggia e furba e pensava e ripensava: "Non posso proprio salvare i miei piccini?". Alla fine disse al caprettino più piccolo, tutta contenta:
"Prendi filo, ago e forbici e seguimi"
I due uscirono e trovarono il lupo che russava, disteso sul prato.
"Ecco il lupo cattivo"
disse la madre, e lo osservò da tutte le parti. "Ah, fossero ancora vivi i miei sei piccini, dopo che se li è mangiati per merenda!"
"Dammi un po' le forbici"
disse al piccolo. Tagliò allora la pancia del lupo e i sei caprettini, che per via della fretta e dell'avidità il lupo aveva ingoiato interi, saltarono fuori illesi. Come abbracciavano la loro mamma, e com'erano felici che essa li avesse liberati da quella buia prigione! Ma essa ordinò loro di andare a prendere delle pietre grosse e pesanti con le quali riempirono la pancia del lupo, e dopo la ricucirono. Poi corsero tutti via e si nascosero dietro a un cespuglio. Quando il lupo si svegliò, sentì un gran peso nella pancia e disse:
"La mia pancia romba e rimbomba! La mia pancia romba e rimbomba! Che cos'è? Ho solo mangiato sei caprettini"
Egli pensò: "una bella bevuta mi farà bene", e si mise in cammino per cercare una fontana. Ma come vi si sporse sopra, il peso delle pietre lo tirò giù, cadde in acqua e annegò. A questa vista i sette capretti vennero di corsa e ballarono di gioia intorno alla fontana.

fine

Jacob e Wilhelm Grimm


giovedì 5 marzo 2009

I tre nanetti del bosco

C'era una volta un uomo,

a cui morì la moglie e una donna a cui morì il marito; l'uomo aveva una figlia e la donna pure.Le due ragazze erano amiche e andando a spasso insieme si recarono un giorno, a casa della donna. Ella disse alla figlia dell'uomo:
“Ascolta, di' a tuo padre che vorrei sposarlo; poi ogni mattina ti laverai nel latte e berrai vino; mia figlia invece si laverà nell'acqua e berrà acqua”.
La fanciulla andò a casa e raccontò al padre ciò che la donna le aveva detto. L'uomo disse:
“Che cosa devo fare? Sposarsi è una gioia e un tormento insieme!”.
Infine si tolse lo stivale e disse:
“Prendi questo stivale che ha un buco nella suola; vai in solaio, appendilo al chiodo grosso e versaci dentro dell'acqua. Se tiene, prenderò di nuovo moglie; ma se l'acqua cola, non la prenderò”.
La fanciulla fece come le era stato ordinato; ma l'acqua restrinse il buco e lo stivale si riempì fino all'orlo. Allora riferì al padre com'era andata; egli stesso salì in solaio e quando vide che era proprio vero andò dalla vedova, la chiese in sposa, e furono celebrate le nozze. La mattina dopo, quando le due fanciulle si alzarono, davanti alla figlia dell'uomo c'era latte per lavarsi e vino da bere mentre davanti alla figlia della donna c'era acqua per lavarsi e acqua da bere. La seconda mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere sia davanti all'una sia davanti all'altra. E la terza mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere davanti alla figlia dell'uomo, e latte per lavarsi e vino da bere davanti alla figlia della donna; e così fu sempre. La donna si accanì contro la figliastra e non sapeva cosa inventare per farla stare ogni giorno peggio. Era anche invidiosa, perché‚ la figliastra era bella e amabile, mentre la figlia vera era brutta e antipatica. Una volta, d'inverno, che c'era un gelo da spaccare le pietre e il monte e la valle erano coperti di neve, la donna fece un vestito di carta, chiamò la figliastra e disse:
“Su, mettiti questo vestito va' nel bosco e raccoglimi un cestino di fragole: ne ho voglia”
“Buon Dio” disse la fanciulla “d'inverno non crescono le fragole, la terra è gelata e la neve ha coperto tutto. E come posso andare con l'abito di carta? Fuori fa così freddo che gela il fiato, il vento lo attraverserà e le spine me lo strapperanno di dosso.”
“Vuoi anche contraddirmi?” disse la matrigna “Vattene e non farti vedere se non hai riempito il cestino di fragole.”
Poi le diede anche un pezzetto di pane duro e disse:
“Così hai da mangiare per tutto il giorno”.
E pensava:
"Fuori gelerà e morirà di fame: non mi comparirà mai più davanti agli occhi".
La fanciulla obbedì, indossò il vestito di carta e uscì col cestino. Da ogni parte non c'era che neve e neanche un filo di verde. Quando giunse nel bosco, vide una piccola casetta dalla quale sbirciavano tre nani. La fanciulla diede loro il buongiorno e bussò alla porta. Essi gridarono:
“Avanti!”
ed ella entrò nella stanza e si sedette sulla panca accanto alla stufa; voleva scaldarsi e mangiare la sua colazione. I nani dissero:
“Danne un po' anche a noi”
“Volentieri”
ella disse; divise in due il suo pezzetto di pane e ne diede loro metà.Essi domandarono:
“Che cosa cerchi nel bosco d'inverno, con quel vestitino leggero?”
“Ah” rispose ella “devo riempire un cestino di fragole, e non posso tornare a casa se non le trovo.”
Quando ebbe mangiato il suo pane, essi le diedero una scopa e dissero:
“Spazza via la neve davanti alla porta, dietro casa”.
Ma come fu uscita, i tre omini dissero fra loro:
“Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così gentile e buona e ha diviso il suo pane con noi?”.
Allora disse il primo:
“Che diventi più bella ogni giorno”.
Disse il secondo:
“Che le cadano di bocca monete d'oro a ogni parola che dice”.
Il terzo disse:
“Che venga un re e la sposi”.
La fanciulla, con la scopa dei nani, spazzò via la neve dietro alla piccola casetta, e là sotto era tutto rosso di belle fragole mature. Allora, con gran gioia, si affrettò a riempire il cestino, ringraziò gli omini, prese congedo da loro e corse a casa a portare le fragole alla matrigna.Quando entrò e disse:
“Buona sera!”
subito le cadde di bocca una moneta d'oro. Poi raccontò quel che le era accaduto nel bosco, e a ogni parola che diceva le uscivano di bocca le monete d'oro, cosicché‚ ben presto l'intera casa ne fu piena.Ma la sorellastra divenne invidiosa e insistette a lungo con la madre perché‚ la mandasse nel bosco. Questa però non voleva e disse:
“No, mia cara piccina, è troppo freddo, potresti gelare”.
Ma dato che la figlia continuava ad insistere e non la lasciava in pace, finì col cedere, ma prima le cucì un magnifico giubbetto di pelliccia, glielo fece indossare e le diede pane, burro e focaccia da mangiare per la strada. La fanciulla giunse nel bosco proprio dove si trovava la casetta. Anche questa volta i tre nanetti sbirciavano fuori, ma lei non li salutò ed entrò nella stanza senza indugio, sedette vicino alla stufa e incominciò a mangiare il suo pane imburrato e la sua focaccia.
“Daccene un po'” esclamarono i nani.
Ma ella rispose:
“Non basta neanche a me, come potrei darne ad altri?”.
Quando ebbe finito di mangiare, essi dissero:
“Eccoti una scopa, spazza davanti alla porta dietro casa”.
“Sì, spazzate voi” rispose “non sono mica la vostra serva!”
Quando vide che non volevano regalarle nulla, prese la porta.Allora gli omini dissero fra loro: “Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così scortese e ha un cuore cattivo e invidioso, senza carità?”.
Il primo disse:
“Che diventi ogni giorno più brutta”.
Il secondo disse:
“Che le esca di bocca un rospo a ogni parola che dice”.
Il terzo disse:
“Che muoia di mala morte”.
La ragazza fuori cercò le fragole ma, non avendone trovata neanche una, andò a casa stizzita. E quando aprì la bocca per raccontare a sua madre quel che le era successo nel bosco, a ogni parola le saltava fuori un rospo, cosicché‚ tutti avevano ribrezzo di lei. Allora la matrigna si adirò ancora di più e pensava soltanto a tormentare la figlia del marito, che tuttavia ogni giorno diventava più bella. Infine prese un paiolo, lo mise sul fuoco e vi fece bollire del filo. Quando fu bollito lo diede alla povera ragazza insieme a una scure, perché‚ andasse sul fiume gelato, aprisse un buco nel ghiaccio e vi immergesse il filo.Ella obbedì, andò e fece un buco nel ghiaccio; e, mentre adoperava la scure, arrivò una splendida carrozza in cui sedeva il re. Questi si fermò e chiese:
“Bimba mia, cosa fai qui?”.
“Sono una povera fanciulla e bagno il filo.”
Allora il re si impietosì e vedendo che era così bella disse:
“Vuoi venire con me?”
“Ah sì, di tutto cuore”
ella rispose, poiché‚ era felice di lasciare la madre e la sorella. Salì dunque in carrozza e partì con il re, e quando giunsero al castello si celebrarono le nozze con gran pompa, come gli omini avevano augurato alla fanciulla. Dopo un anno la giovane regina partorì un bambino e, quando la matrigna venne a sapere la fortuna che le era toccata, venne con sua figlia con il pretesto di farle visita. Ma una volta che il re non era in casa, e non c'era nessun altro, la perfida donna afferrò la regina per la testa e sua figlia l'afferrò per i piedi, la sollevarono dal letto e la gettarono dalla finestra nel fiume che scorreva là sotto.Poi la matrigna fece distendere la brutta figlia nel letto e la coprì fin sopra la testa. Quando il re fu di ritorno e volle parlare con sua moglie, la vecchia gridò:
“Zitto, zitto, adesso no: è tutta in sudore, dovete lasciarla riposare per oggi”.
Il re non pensò a nulla di malvagio e tornò soltanto la mattina dopo, e quando parlò con sua moglie ed ella dovette rispondergli, a ogni parola saltava fuori un rospo, mentre di solito cadeva una moneta d'oro. Allora egli chiese di che cosa si trattasse, ma la vecchia disse che era l'effetto di quella gran sudata e che poi tutto sarebbe scomparso. Ma quella notte lo sguattero vide un'anatra che veniva nuotando lungo la canaletta di scolo dell'acqua e che disse:
”Che fa a quest'ora il mio Sire? Veglia o è già andato a dormire?”
E, siccome egli non diede risposta, aggiunse:
“Le mie ospiti che stan facendo?”
Lo sguattero rispose:
“A quest'ora stanno dormendo.”
”E il mio bimbo che cosa fa?”
Egli rispose:
“Nel suo lettino dorme di già!”
Allora ella prese le sembianze della regina, allattò il bambino, gli sprimacciò il lettino, lo coprì e nuotò via lungo lo scolo dell'acqua con l'aspetto di anatra. Allo stesso modo venne per due notti; la terza disse allo sguattero:
“Vai e di' al re che prenda la spada e, sulla soglia, la brandisca per tre volte sul mio capo”.
Lo sguattero corse a dirlo al re; questi venne con la sua spada e la brandì tre volte sullo spettro, e alla terza volta gli apparve la sua sposa, viva e sana come prima. Il re era felice ma tenne la regina nascosta in una camera fino alla domenica, giorno in cui il bambino doveva essere battezzato. Dopo il battesimo, disse:
“Che cosa merita una persona che ne toglie un'altra dal letto e la getta in acqua?”
“Ah” rispose la vecchia “che sia messa in una botte foderata di chiodi e fatta rotolare giù per il monte nell'acqua.”
Allora il re mandò a prendere una botte siffatta e vi fece mettere dentro la vecchia e sua figlia; poi ne inchiodarono il fondo e la fecero ruzzolare giù per il pendio, fin che rotolò nel fiume.

fine

Jacob e Wilhelm Grimm

sabato 7 febbraio 2009

Enrichetto dal ciuffo

C'era una volta una Regina,

la quale partorì un figliuolo così brutto e così male imbastito, da far dubitare per un pezzo se avesse fattezze di bestia o di cristiano. Una fata, che si trovò presente al parto, dette per sicuro che egli avrebbe avuto molto spirito: e aggiunse di più, che in grazia di un certo dono particolare, fattogli da lei, avrebbe potuto trasfondere altrettanta dose di spirito e d'intelligenza in quella persona, chiunque si fosse, che egli avesse amato sopra tutte le altre. Questa cosa consolò un poco la povera Regina, la quale non poteva darsi pace di aver messo al mondo un brutto marmocchio a quel modo! Il fatto egli è, che appena il fanciullo cominciò a spiccicar parola, disse delle cose molto aggiustate: e in tutto quello che faceva, mostrava un so che di così aggraziato, che piaceva e dava nel genio a tutti. Mi dimenticava di dire che egli nacque con un ciuffettino di capelli sulla testa: e per questo lo chiamarono Enrichetto dal ciuffo: perché Enrichetto era il suo nome di battesimo. In capo a sette o otto anni, la Regina di uno Stato vicino partorì due bambine. La prima, che venne al mondo, era più bella del Sole; e la Regina ne sentì un'allegrezza così grande, da far temere per la sua salute. La stessa fata, che aveva assistito alla nascita di Enrichetto dal ciuffo, si trovò presente anche a quest'altra: e per moderare la gioia della Regina, le dichiarò che la piccola Principessa non avrebbe avuto neppur l'ombra dello spirito, per cui sarebbe stata tanto stupida, quanto era bella. La Regina rimase molto male di questa cosa: ma pochi momenti dopo ebbe un altro dispiacere anche più grosso, nel vedere che la seconda figlia, che aveva partorito, era talmente brutta da fare paura.
"Non vi disperate, signora", le disse la fata, "la vostra figlia sarà ricompensata per un altro verso; essa avrà tanto spirito, da non avvedersi nemmeno della bellezza che non l'è toccata".
"Dio voglia che sia così!", rispose la Regina, "ma non ci sarebbe modo di fare avere un po' di spirito anche alla maggiore che è tanto bella?"
"Per quanto allo spirito, o signora, io non ci posso far nulla", disse la fata, "ma posso tutto per la parte della bellezza; e siccome non c'è cosa al mondo che non farei per vedervi contenta, così le concederò in dono la virtù di far diventare bella la persona che più sarà di suo genio".
A mano a mano che le due Principesse crescevano, crescevano con esse i loro pregi, fino al punto che non si parlava d'altro che della bellezza della più grande e dello spirito della minore. È vero però che anche i loro difetti si facevano più vistosi, coll'andare in là degli anni. La minore imbruttiva a occhiate, e la maggiore diventava stupida un giorno più dell'altro, e non sapeva rispondere alle domande che le venivano fatte, o rispondeva delle giuccherie. Oltre a questo ell'era così smanierata e senza garbo né grazia, che non era buona di posare quattro vasi di porcellana sul camminetto senza romperne qualcuno, né d'accostarsi alla bocca un bicchier d'acqua senza versarselo mezzo sul vestito. Sebbene la bellezza sia un gran vantaggio per una fanciulla, pure è un fatto che la sorella minore aveva sempre il disopra sull'altra, in società e in tutte le conversazioni. Sul primo, tutti si voltavano dalla parte della più bella per vederla e ammirarla; ma dopo pochi minuti la lasciavano per andare da quella che aveva più spirito, a sentire le cose graziose che diceva: e faceva maraviglia di vedere come in meno di un quarto d'ora la maggiore non avesse più nessuno dintorno a sé, mentre tutti erano a far corona intorno alla sorella minore. La maggiore, sebbene molto stupida, si avvide di questa cosa: e avrebbe dato volentieri tutta la sua bellezza, per avere la metà dello spirito della sorella. La Regina, quantunque fosse prudente, non seppe stare dallo sgridarla piu volte delle sue grullerie: e questa cosa fece tanta pena alla povera Principessa, che si sentì come morire. Un giorno, che era andata nel bosco a piangere la sua disgrazia, vide venirsi incontro un omiciattolo brutto e spiacente quanto mai, ma vestito con grandissima eleganza. Era il giovane principe Enrichetto dal ciuffo, il quale innamoratosi di lei al solo vederne i ritratti che giravano per tutto il mondo, aveva abbandonato il regno di suo padre per avere il piacere di vederla e di parlarle. Contentissimo di trovarla sola, si avvicinò a lei con tutto il rispetto e la gentilezza immaginabile. E avendo udito che essa era molto afflitta, dopo i soliti complimenti d'uso le disse:
"Io non so comprendere, o Regina, come essendo voi così bella come siete, possiate essere triste come apparite; perché, sebbene io possa vantarmi di aver veduto un'infinità di belle donne, posso dire di non averne vista una sola, la cui bellezza si avvicinasse alla vostra".
"A voi piace dir così!", rispose la Principessa, e non disse altro.
"La bellezza", riprese Enrichetto dal ciuffo, "è un dono così grande, che deve compensare di tutto il resto; e quando la si possiede, non vedo nessun'altra cosa che possa recarci afflizione".
"Vorrei", rispose la Principessa, "essere brutta quanto voi e avere dello spirito; piuttosto che avere la bellezza che ho, ed essere una stupida come sono".
"Non c'è nulla, o signora, che dia segno di aver dello spirito, quanto il credere di non averne: egli è uno di quei pregi, che per la sua indole singolare, più se ne ha, e più si crede di esserne mancanti".
"Io non m'intendo di queste cose", disse la Principessa, "ma so benissimo che io sono una grande imbecille, ed ecco la cagione del dolore, che mi farà morire".
"Se non è che questo che vi tormenta, o signora, io posso facilmente metter fine alla vostra afflizione".
"E come fare?", disse la Principessa.
"Io ho il potere", disse Enrichetto dal ciuffo, "di trasfondere tutto lo spirito, che può desiderarsi, in quella persona che io dovrò amare sopra le altre; e siccome voi siete quella, così dipende da voi di possedere tanto spirito, quanto se ne può avere, solo che siate contenta di sposarmi."
La Principessa rimase come una statua, e non rispose sillaba.
"Vedo bene", rispose Enrichetto dal ciuffo, "che questa mia proposta non vi è andata punto a genio: e non me ne faccio nessuna meraviglia; ma vi lascio un anno intero, perché possiate prendere una risoluzione".
La Principessa aveva così poco spirito, e al tempo stesso sentiva tanta voglia di averne, che s'immaginò che la fine dell'anno non sarebbe arrivata mai, e così accettò la proposizione che le veniva fatta.
Appena ebbe promesso a Enrichetto dal ciuffo che dentro un anno e in quello stesso giorno l'avrebbe sposato, si sentì subito molto diversa da quella di prima; e provò una facilità incredibile a dire tutte le cose che voleva dire, e a dirle in un modo grazioso, spontaneo e naturale. Cominciò da questo momento a metter su una conversazione elegante e ben condotta con Enrichetto dal ciuffo, nella quale essa brillò con tanta vivacità, che a questi nacque il dubbio di averle dato più spirito di quello che se ne fosse serbato per sé. Ritornata che fu al palazzo, la Corte non sapeva che pensare di un cambiamento così improvviso e straordinario; dappoiché, per quante sguaiataggini le avevano udito dire in passato, ora la sentivano dire altrettante cose spiritosissime e piene di buon senso. Tutta la Corte n'ebbe un'allegrezza tale da non figurarselo. Non ci fu la sorella minore, che non ne restasse contenta, perché non avendo più sulla maggiore il disopra dello spirito, faceva ora accanto a lei la figura meschinissima d'una bertuccia. Il Re si lasciava guidare da lei, e qualche volta andava fino a tener consiglio nel suo quartiere. La diceria di questo cambiamento essendosi sparsa all'intorno, tutti i giovani principi degli Stati vicini fecero a gara per arrivare a farsi amare, e quasi tutti la chiesero in sposa ma essa non trovava chi avesse abbastanza spirito, e faceva lo stesso viso a tutte le offerte di matrimonio, senza impegnarsi con alcuno. Intanto se ne presentò uno così potente, così ricco, e così spiritoso e bello della persona, che ella non poté stare dal sentire una certa inclinazione per lui. Suo padre, che se n'era avveduto, le disse che la lasciava padrona di scegliersi lo sposo a modo suo, e che non aveva da far altro che far conoscere la sua volontà. E siccome accade che più uno ha dello spirito, e più si trova impensierito a pigliare una risoluzione stabile in certe faccende, essa, dopo aver ringraziato suo padre, domandò che le fosse dato un po' di tempo per poterci pensar sopra. E per caso andò a passeggiare in quel bosco dove aveva incontrato Enrichetto dal ciuffo, per avere il modo di pensare comodamente alla risoluzione da prendere. Mentr'ella passeggiava tutt'immersa ne' suoi pensieri sentì sotto i piedi un rumore sordo, come di molte persone che vadano e vengano, e si dieno un gran da fare. Avendo teso l'orecchio con più attenzione, sentì qualcuno che diceva: "Passami codesta caldaia"; e un altro: "Metti della legna sul fuoco".
La terra si aprì in quel momento, ed ella vide sotto i suoi piedi come una gran cucina piena di cuochi, di sguatteri e d'ogni sorta di gente necessaria per allestire una gran festa. E di lì uscì fuori una schiera di venti o trenta rosticcieri, che andarono a piantarsi in un viale del bosco, intorno a una lunghissima tavola, e tutti colla ghiotta in mano e colla coda di volpe sull'orecchio si posero a lavorare a tempo di musica, sul motivo di una graziosa canzone. La Principessa, stupita di quello spettacolo, domandò loro per chi fossero in tanto lavorìo."Lavoriamo", rispose il capoccia della brigata, "per il signor Enrichetto dal ciuffo, che domani è sposo".
La Principessa, sempre più meravigliata, e ricordandosi a un tratto che un anno fa, e in quello stesso giorno, aveva promesso di sposare il principe Enrichetto dal ciuffo, credé di cascare dalle nuvole. La ragione della sua dimenticanza stava in questo che, quando promise, era sempre la solita stupida, e acquistando in seguito lo spirito che il Principe le aveva dato, non si ricordava più di tutte le sue grullerie. Non aveva fatto ancora trenta passi, seguitando la sua passeggiata, che s'imbatté in Enrichetto dal ciuffo, il quale si faceva avanti tutto sgargiante e magnifico, come un Principe che vada a nozze.
"Eccomi qui, signora", egli disse, "puntuale alla mia parola: e non ho il minimo dubbio che voi siate venuta qui per mantenere la vostra, e per far di me, col dono della vostra mano, il mortale più felice di questa terra".
"Vi confesserò francamente", rispose la Principessa, "che su questa cosa non ho presa ancora nessuna risoluzione; e ho paura che, se dovrò prenderne una, non sarà mai quella che desiderate".
"Voi mi fate stupire, o signora", disse Enrichetto dal ciuffo.
"Lo capisco", disse la Principessa, "difatti mi troverei in un grandissimo impiccio, se avessi da fare con un uomo brutale e senza spirito. Una Principessa mi ha dato la sua parola, egli mi direbbe; e una volta che mi ha promesso, bisogna bene che mi sposi. Ma poiché la persona colla quale parlo, è la persona più spiritosa di questo mondo, così sono sicura che vorrà capacitarsi della ragione. Voi sapete che anche allora, quand'ero stupida, non sapevo risolvermi a doversi sposare; e vi par egli possibile che ora, dopo tutto lo spirito che mi avete dato, e che mi ha resa di più difficile contentatura, di quel che fossi prima, possa oggi prendere una risoluzione che non sono stata buona di prendere per il passato? Se vi premeva tanto di sposarmi, avete avuto un gran torto a togliermi dalla mia stupidaggine, e a farmi aprire gli occhi, perché ci vedessi meglio d'una volta".
"Se un uomo senza spirito", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sarebbe ben accolto, stando a quello che dite, quando venisse a rinfacciarvi la parola mancata, o perché volete che io non debba valermi degli stessi mezzi, per una cosa nella quale è riposta la felicità di tutta la mia vita? Vi pare egli ragionevole che le persone di spirito debbano trovarsi in peggiore condizione di quelle che non ne hanno? E potete pretenderlo voi? voi che ne avete tanto e che avete tanto desiderato di averne? Ma veniamo al sodo, se vi contentate. All'infuori della mia bruttezza, c'è forse in me qualche cosa che vi dispiaccia? Siete forse scontenta della mia nascita, del mio spirito, del mio carattere, delle mie maniere?"
"Tutt'altro", rispose la Principessa, "anzi, tutte le cose che avete nominate, sono appunto quelle che mi piacciono in voi".
"Quand'è così", rispose Enrichetto dal ciuffo, "sono felice, perché non sta che a voi a fare di me il più bello e il più grazioso degli uomini."
"Ma come può accader questo?", chiese la Principessa.
"Il come è facile", rispose Enrichetto dal ciuffo. "Basta che voi mi amiate tanto, da desiderare che ciò accada: e perché, o signora, non vi nasca dubbio su quello che dico, sappiate che la medesima fata, che nel giorno della mia nascita mi fece il dono di rendere spiritosa la persona che più mi fosse piaciuta, diede a voi pure quello di far diventare bello colui che amerete, e al quale vorrete far di genio e volentieri questo favore"
"Se la cosa sta come la raccontate", disse la Principessa, "vi desidero con tutto il cuore che diventiate il Principe più simpatico e più bello del mondo, e per quanto è da me, ve ne faccio pienissimo dono".
La Principessa aveva appena finito di dire queste parole, che subito Enrichetto dal ciuffo apparve ai suoi occhi il più bell'uomo della terra, e il meglio formato, e il più amabile di quanti se ne fossero mai veduti. Vogliono alcuni che questo cambiamento avvenisse non già per gl'incanti della fata, ma unicamente per merito dell'amore. E dicono che la Principessa, avendo ripensato meglio alla costanza del suo cuore e della sua mente, non vide più le deformità personali di lui, né la bruttezza del suo viso: talché il gobbo che egli aveva di dietro, le sembrò quella specie di rotondità e di floridezza d'aspetto di chi dà nell'ingrassare: e invece di vederlo zoppicare orribilmente, come aveva fatto fino allora, le parve che avesse un'andatura aggraziata e un po' buttata su una parte, che le piaceva moltissimo. Fu detto fra le altre cose, che gli occhi di lui, che erano guerci, le parvero più brillanti; e che finisse col mettersi in testa che quel modo storto di guardare fosse il segno di un violento accesso di amore: e che perfino il naso di lui, grosso e rosso come un peperone, accennasse a qualche cosa di serio e di marziale. Fatto sta che la Principessa gli promise, lì sul tamburo, che l'avrebbe sposato, purché ne avesse ottenuto il consenso dal Re suo padre. Il Re, avendo saputo che la sua figlia aveva moltissima stima per Enrichetto dal ciuffo, che egli del resto conosceva per un Principe spiritosissimo e pieno di giudizio, lo accettò con piacere per suo genero. Il giorno dipoi furono fatte le nozze, come Enrichetto dal ciuffo aveva preveduto, e a seconda degli ordini che egli medesimo aveva già dato da molto tempo prima. Questa sembrerebbe una favola; eppure è una storia.
Tutto ci par bello nella persona amata, anche i difetti: tutto ci par grazioso, anche le sguaiataggini.
La storia d'Enrichetto dal ciuffo è vecchia quanto il mondo.

fine

Charles Perrault
traduzione di Carlo Collodi

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